Alto Molocue 2018
Diario della 1a settimana ad Alto Molocue
Quindi questo viaggio è cominciato. Tre aerei, 28 ore di viaggio, nessun contatto con ciò che abbiamo lasciato, se non per pochi secondi in ogni aeroporto di scalo. L’ansia per i documenti e per i bagagli, ansia diventata poi realtà: dove saranno finiti i materiali per i bambini? Voli cancellati o dirottati, l’incertezza di riuscire a trovarci: portoghesi, spagnoli, tedeschi e italiani, tutti insieme per poi ripartire. Tante preoccupazioni e pensieri, ma ci siamo affidati alla Parola del giorno: “Coraggio, non abbiate paura!”. Ogni ansia si è infatti dissolta una volta usciti dall’aeroporto per il primo impatto con la realtà. Terra rossa, strade in cui si sgroviglia una moltitudine di persone e qua e là volti di bambini sorridenti e sorpresi alla vista dei “brancos” (bianchi). Il caos della città e la vita semplice in un equilibrio sconvolgente.
L’accoglienza a Nampula è stata calorosa, tutti attorno al tavolo a condividere i prodotti della loro terra, quel poco che hanno. Poco tempo per guardarsi attorno e poi in macchina per il nostro primo viaggio in cui potersi attaccare al finestrino. Davanti a noi tutto era avvolto dai colori caldi e forti del sole al tramonto: erano soltanto le cinque. Poi d’improvviso l’oscurità: alle sei già nessuna luce; solo le stelle, grandi e innumerevoli, e sotto di loro persone nascoste dalla notte sul ciglio della strada che camminavano con oggetti sopra la testa o accompagnati da biciclette cariche di cose. Passiamo in mezzo a capanne, semplici dimore di fango e paglia: l’impressione é che il tempo qui si sia bloccato. Ma non c’è modo di fermare lo sguardo su nulla perché la macchina sfreccia, incrociando solo qualche camion lungo un orizzonte aperto all’infinito. Arriviamo presto ad Alto Molocue… siamo stanchi, ma felici e la paura per le zanzare della malaria può aspettare perché ora siamo finalmente a casa!
L’indomani ci svegliamo e nonostante qui ci siano offerte tutte le comodità a cui siamo abituati, seppur nella sobrietà, abbiamo il nostro primo incontro spiacevole: il latte in polvere. A consolarci però ci sono i bimbi che ci aspettano dall’alba: la notizia del nostro arrivo sembra essersi diffusa rapidamente! Facce sporche, gambe coperte dalla terra, vestiti strappati, piedi nudi, qualche fratello più piccolo che appesantisce la schiena, ma tanta voglia di fare amicizia con noi e nessuna intenzione di lasciarsi scoraggiare dalle difficoltà della lingua diversa.
I primi giorni, come da programma, sono dedicati ad approfondire la cultura di questo continente e popolo sotto la guida sapiente di padre Elia Ciscato perché davvero non conoscere è il primo passo verso il giudizio e la condanna di ciò che è diverso. Egli ci racconta una simpatica storiella per metterci bene in guardia dall’assumere un atteggiamento da salvatori e onniscienti: “C’erano un giorno due macachi su un albero. Uno disse all’altro: guarda quei pesci stanno morendo annegati, tiriamoli fuori! E dopo averli a loro modo aiutati e vedendoli agitarsi sulla terra ferma si congratularono tra loro dicendo: guarda come sono felici, addirittura saltano dalla gioia! Essi in realtà stavano morendo, ma almeno di un’altra morte”. Ciò che più ci ha colpito è stato scoprire come la società africana sia “matriarcale” e di come siano ancor oggi praticati alcuni rituali, talvolta cristianizzati, carichi di un simbolismo strettamente connesso con gli elementi naturali e con il dualismo maschio/femmina, negativo/positivo. La morte poi non è un tabù, ma vi è una visione veramente olistica tra vita e morte, in cui anche la tomba è considerata una seconda pancia che genera vita e il defunto conseguentemente porta con sé alcuni oggetti a lui cari per la sua esistenza nell’aldilà.
Dopo la condivisione di racconti e foto, siamo andati ad incontrare una numerosa famiglia, il cui capo famiglia, il signor Champalala, è grande amico di padre Elia. Egli ci ha mostrato, seduti sulle stuoie della loro capanna esterna, i loro semplici utensili da lavoro della terra, diversi per maschi e femmine, e i mortai e i setacci per lavorare la farina e le sementi, loro cibo quotidiano. Abbiamo anche assistito ad un momento di preghiera e benedizione e ci hanno poi offerto delle banane e una gallina, nonostante la loro povertà: qui davvero l’ospite è sacro e, anche se abbiamo insistito, alla fine non abbiamo potuto rifiutare tanta carità nel condividere! Il ritorno al centro giovanile dei padri dehoniani é stato parecchio movimentato: ci siamo dovuti stipare in 18 sul retro del pick-up a causa di un guasto all’altra macchina. L’adrenalina dovuta alla velocità e al sobbalzare per le buche della strada sterrata, l’aria che ci accarezzava il viso, il sole che ci riscaldava, il bel clima di gruppo che si stava creando hanno davvero fatto percepire a tutti la felicità di essere insieme in un Paese tanto sognato e tutto da scoprire! La sera poi abbiamo festeggiato a sorpresa il diciottesimo compleanno di Maarit, nostra compagna di viaggio, con una buonissima torta e tanti auguri cantati in ogni lingua.
Successivamente il gruppo si è diviso e alcuni ragazzi sono partiti per Quelimane per un’altra esperienza di servizio. Chi è rimasto ad Alto Molocue, accompagnato da una ragazza del posto si è recato al mercato della città. Abbiamo dovuto camminare parecchio, ma qui le distanze sembrano essere relative: sia perché abituati a spostarsi a piedi o al massimo in moto, sia perché é considerato distante solamente quel luogo raggiungibile oltrepassando fiumi. Al mercato le ragazze si sono dilettate nello scegliere delle capulane per sé da indossare durante la presentazione del gruppo alla comunità in occasione della messa domenicale: ci siamo immerse in un mare di colori e la scelta non è stata facile. Anche il mercato rifletteva la povertà di questo popolo: tra le bancarelle infatti abbiamo trovato anche chi vendeva dei topi morti come cibo. La sera abbiamo poi assistito ad una processione in occasione della nascita in Cielo di Padre Dehon: che beatitudine per noi sentire cantare con tanta partecipazione tutta l’assemblea e cercare di tenere il ritmo battendo le mani, attorniati da bambini! Non nascondiamo che qualcuno di noi si è anche emozionato.
Il giorno successivo abbiamo poi visitato il monastero in costruzione della “Congregazione della Piccola Famiglia della Resurrezione” dell’abate Orfeo a Rurupi, completamente immerso nella natura incontaminata. Siamo stati accolti dal monaco Andrea che ci ha svelato i rimandi evangelici nell’architettura della struttura e che ha condiviso con noi la sua preoccupazione relativa alla mancanza di vocazioni; nonostante ciò lui e la sua comunità sono fiduciosi che il Signore chiamerà e che il posto non verrà trasformato in un hotel. Queste opere, a un primo impatto, potrebbero essere percepite in contrasto con l’indigenza della popolazione, ma in realtà danno lavoro alla gente ed educano alla Bellezza che è il vero fine di ogni Sapienza umana e il motore più forte per ogni vero cambiamento culturale e crescita sociale, anche perché “i poveri li avremo sempre con noi”.
Con l’inizio della nuova settimana possiamo finalmente cominciare con la routine: la mattina veniamo inseriti come insegnanti a scuola e il pomeriggio siamo invitati ad animare con qualche gioco i bambini del centro. La mattina siamo quindi divisi in coppie e assegnati a tre classi: una della materna e due classi elementari. Le classi sono numerose e i bambini molto vivaci, capiamo subito che c’è bisogno di molta pazienza, ma anche loro ne hanno nei nostri confronti perché la sfida di misurarsi con un’altra lingua non è facile. Partiamo con qualche attività interattiva e canzone sui numeri e colori in portoghese e in inglese. Non tutti ancora sanno leggere e scrivere o hanno a disposizione del materiale per farlo, ma la curiosità nel conoscere c’é. Il pomeriggio ci cimentiamo nell’insegnargli palla avvelenata e bandiera, ma sono tanti, di tutte le età e probabilmente più abituati a giochi liberi, piuttosto che a giochi con molte regole e troviamo difficoltà nel mantenere la disciplina. Confidiamo che perseverando possano arrivare a divertirsi tutti insieme.
I bambini sono già molto affezionati a noi, come noi a loro, anche se notiamo che spesso ci guardano con uno stupore reverenziale perché di un altro colore di pelle e continente. Ci ha molto colpito anche che la loro cultura sembra non contemplare l’idea di un bambino che deve essere accudito e protetto, nel nostro caso anche iperprotetto, ma essi vengono considerati quasi come degli adulti più piccoli, già in grado di prendersi cura di sé e dei fratelli.
Chissà quante altre cose abbiamo ancora da scoprire e vivere insieme… Alla prossima!
Diario della 2a settimana ad Alto Molocue
Seconda settimana! Siamo entrati a pieno regime nelle attività di gioco con i bambini. Dedicandogli ogni giorno e conoscendoli sempre più a fondo, ci stiamo rendendo conto di come le aspettative e l’ideale di animazione che avevamo prima di partire stiano lentamente mutando. I bambini che prima pensavamo pacati e riservati, ora ci stanno travolgendo con la loro esuberanza ed irrequietezza e, anche quando vogliamo riposarci, ci ritroviamo attorniati dai loro “eu quero” (io voglio)… per non parlare del fatto che fanno a gara nel tenerci la mano, ricordandoci quanto sia gioioso semplicemente lo stare insieme a qualcuno, senza per forza dover fare qualcosa! Ci stiamo anche scontrando con delle differenze culturali e di educazione emerse grazie alle attività ricreative: metterli in fila ormai lo consideriamo un grande successo! Abbiamo dovuto semplificare le regole di molti giochi per poter adattarli ad ogni età e al grande numero di bambini, ma è la competizione il tasto vincente se vogliamo essere ascoltati. Ci siamo anche accorti di come non siano abituati ed interessati a film di animazione come i cartoni: avrebbero invece ammutolito e imbambolato qualsiasi bambino europeo. Al contrario ci hanno letteralmente investito quando gli abbiamo consegnato dei semplici braccialetti colorati: chissà se ne hanno mai avuto uno, dato l’entusiasmo! D’altra parte però ci rendiamo conto che non è bene diventare per loro come “Babbo Natale” perché la nostra relazione ne risentirebbe. Oltretutto abbiamo aperto gli occhi sul fatto che la povertà é prima di tutto un atteggiamento mentale di non possesso delle cose e che non è scontato che i poveri siano davvero tali.
Nel fine settimana siamo andati a visitare alcune comunità ministeriali disperse nella savana, lontano dalle città e dai paesi più grandi. Poche case di fango rosso, una chiesa, qualche gallina, eppure con una felicità così genuina. Divisi in due gruppi abbiamo preso parte ad una messa animata con tipici canti e balli durante la quale abbiamo potuto assistere ad un battesimo ed alcune comunioni. La chiesa costruita con semplici mattoni, il tetto di paglia, le panche senza schienali e inginocchiatoi, delle ghirlande deteriorate di carta da giornale appese al soffitto, il disegno a mano sull’altare e la serietà e rispetto dei bambini e adulti nei confronti del sacramento che dovevano ricevere, ci ha fatto riflettere sul nostro diverso modo di vivere queste giornate di festa nelle nostre parrocchie. La Santa Messa tenuta in quel giorno dai Padri dehoniani della missione che ci ospita, abbiamo poi scoperto essere l’unica messa dell’anno celebrata da un sacerdote; solitamente infatti queste comunità sono accompagnate da dei responsabili, cioè semplici laici istruiti in materia religiosa, mentre l’Eucarestia consegnata da Ministri Straordinari della Comunione. Per noi che diamo per scontato la possibilità di partecipare a un vera e propria messa domenicale e infrasettimanale è stato uno dei tanti nuovi cambi di prospettiva: qui davvero niente é ovvio. La comunicazione con le persone che ci hanno accolto, già difficile per i non nativi portoghesi, si é rivelata un’ulteriore sfida dal momento che la maggior parte delle persone parla solo la lingua locale Elomwe e il portoghese nemmeno lo capisce. Teresa, membro della Compagnia Missionaria del Sacro Cuore e accompagnatrice di uno dei due gruppi, gli ha insegnato una canzone sul progetto che Dio ha su di noi, così abbiamo potuto appurare come vie meno formali possano diventare un metodo di insegnamento molto forte, soprattutto nel caso di comunità formate da persone non scolarizzate.
Un ottimo modo per capire la storia di queste comunità ci é stata offerta nel pomeriggio da Padre Renato Comastri. Egli ha raccontato come cinquant’anni fa ci fossero solamente otto cristiani in tutta la Zambezia; adesso, invece, si possono contare più di 200 comunità, cresciute spontaneamente dopo il passaggio dei missionari. In principio erano formate solo da adulti battezzati, ora lo sono anche i bambini, e non ci sono impedimenti nell’unione matrimoniale di coppie con figli dal momento che l’annuncio evangelico è giunto, seppur successivamente. Nel periodo della guerra civile tra il partito della Frelimo e della Renamo, i padri hanno dovuto operare in maniera più silenziosa, costretti a rimanere nei loro centri, cogliendo l’occasione per scrivere la liturgia della parola nella lingua locale, permettendo così alla maggioranza della popolazione di venirne a conoscenza. Addirittura ci ha riportato che durante la guerriglia, alcuni andavano in Malawi a recuperare l’eucarestia, alcune volte rimanendo uccisi: quanti santi sconosciuti. Altra testimonianza di grande forza nella fede di queste persone è stata quella, dopo la guerra, di non cadere in vendette personali. Hanno saputo quindi perdonare, mostrarsi uniti e sopportare la croce: quali migliori virtù di testimonianza cristiana!
Alla sera abbiamo avuto l’occasione di trovarci a mangiare con i giovani della chiesa e fare un po’ di festa con musica e balli. E’ stato un momento di confronto, di divertimento e anche di stupore: loro stupiti del fatto che noi ragazze sui 25 anni non eravamo ancora sposate, e da parte nostra per i loro modo di ballare molto provocante! Il giorno successivo, insieme ad alcune di loro ci siamo spostati in mototaxi, rigorosamente senza casco, per andare a fare delle prove di canto e ballo in occasione della ventura celebrazione del 25° anno della Diocesi. Ci siamo sentiti dei pesci fuor d’acqua perchè come ospiti non siamo stati molto inclusi nella partecipazione, ma ci siamo affiancati silenziosamente a loro divertendoci a riprodurre i loro canti e balli. Le donne si cullavano in movimenti ripetitivi e dolci di gruppo che seguivano dei ritornelli ripetuti all’infinito, mentre gli uomini battevano le mani e si divertivano in qualche passo di danza per tenere il tempo con originalità. Forse l’esclusione che abbiamo sentito è quella dei nostri coetani africani in Italia?
Con l’inizio della nuova settimana la scuola ha chiuso per le vacanze, così ci siamo ritrovati a stare con i bambini sin dalla mattina e nei nostri pomeriggi ci siamo trasformati in ultras per delle squadre di calcio maschili e femminili. Gli abbiamo regalato delle tute da calcio e donato dei premi per i vincitori come magliette portate da Padova e dei chupa-chups. Mai un premio fu tanto ambito: i ventenni a contenderseli peggio dei bambini.
A metà settimana siamo poi andati a visitare la città di Gurue, a 120 km di distanza da Alto Molocue, passando per Milevane. Qui vi era un seminario dei padri chiamato “Scuola Apostolica San Francisco Xavier”, ora abbandonato a causa di alcuni impedimenti della struttura.
Che spreco però per l’Africa! La città di Gurue ci ha fatto una buona impressione, invece, perché coperta dal verde delle grandi piantagioni di thè: sembrava quasi un Eden terrestre! Finalmente una città molto più sviluppata di Alto Molocue, seppur molto povera. Abbiamo visitato il centro missionario lì presente, dotato anche di una scuola industriale e agricola; in questo periodo il centro è animato da dei ragazzi di Cremona… ci siamo confrontati con loro e concordavamo su difficoltà e bellezze di questo tipo di missione a noi affidata. Siamo poi ripartiti per ritornare a casa, altre 4 ore di macchina interminabili accompagnati da un tramonto degno del “Re Leone”… che pace, anche se per poco perché l’indomani ci avrebbero aspettato cento bambini. Ma perché nessuno ci aveva detto di portare Pazienza, oltre a Fede, Speranza e Carità nelle valigie?
Diario della 3a settimana ad Alto Molocue
Siamo già giunti alla fine della nostra terza settimana qui ad Alto Molocue… ma poteva forse mancare il tanto nominato da Padre Daniele come “battesimo del Mozambico” che si è presentato con qualche simpatica malattia così da rendere il nostro viaggio ancor più memorabile? Chiaramente no! In successione, un giorno dopo l’altro, quattro di noi si sono infatti sentiti particolarmente male accusando vomito, disturbi intestinali importanti e qualche linea di febbre. Potendo essere sintomi malarici, seppur molto lievi, ci siamo tutti un attimo allarmati pensando al peggio e, considerando anche il consulto avuto con un medico autoctono che ne ha sollevato l’ipotesi, siamo stati invitati a fare delle analisi al sangue per togliere qualsiasi dubbio sulla diagnosi della malattia. Ce n’era anche per chi non aveva ancora accusato alcun malessere. Il medico però, non si è propriamente guadagnato la nostra fiducia dal momento che ha prescritto dei fermenti lattici per curare il mal di testa.
Abbiamo dunque preferito evitare di sottoporci a questi esami di laboratorio, optando, invece, per i classici e corretti medicinali consigliati telefonicamente da parte dei nostri medici italiani, un pò di riposo, qualche ora di solitudine e di noia costretti a letto assieme a qualche infuso alle erbe di “chaprince” preparato con cura da Teresa…
Non abbiamo ancora trovato una spiegazione a quest’epidemia: il cibo? Un virus? I bambini con cui stiamo a stretto contatto tutti i giorni hanno forse deciso di farci un regalo? Qualcuno di noi si è veramente preoccupato per la propria salute, trovandosi spiazzato, in preda ai dubbi sulle possibili cause, ai pensieri che si accumulano e si sovrastano nella mente quando ci si trova a parlare da soli, a letto… Ci siamo resi conto di quanto l’apprensione sia più contagiosa e totalizzante di ogni altra malattia fisica.
L’allarme “vomitino” non è ancora rientrato per tutti, e nonostante non sia propriamente piacevole abbiamo cercato di vederla come una tradizione da cui chi arriva in Africa per la prima volta non può scappare. Cosa ne sarà dei pochi rimasti sani???
Durante le giornate, chi non era sofferente a letto ha cercato di intrattenere i bambini al mattino e al pomeriggio. Una mattina l’abbiamo dedicata agli origami, tentando anche di insegnargli questa nobile arte: abbiamo costruito pesci, barchette, aeroplani e il famoso “sale e pepe” insieme, divertendoci a colorarli. Per loro, questo tipo di lavoretti manuali deve essere stato una vera rarità, considerando la povertà dei materiali a cui alcuni hanno accesso, altri proprio non hanno nemmeno la possibilità di usufruirne, per questo molti di loro non hanno molta manualità nè abilità nel dilettarsi con la carta. Con i bambini anche colorare dei cartelloni con dei disegni diventa una sfida: tenere in mano più di un colore, poter sceglierlo, riuscire a non rubarne altri ai compagni, è qualcosa di totalmente scontato per noi, ma davvero inusuale per loro. Tutto ciò ci porta a rivalutare ogni giorno i metodi organizzativi ed educativi “europei” a cui siamo abituati. Passando molto tempo insieme, sappiamo molto bene che sono tutti bimbi e ragazzi molto svegli, furbi e intelligenti, ma con opportunità limitate per poter coltivare talenti e risorse, per cui alcune volte ci poniamo delle domande sul loro futuro. “Magari Ivan sarebbe potuto diventare un astronauta se fosse nato in America e Maura una ricercatrice se cresciuta in Europa; forse David un calciatore di serie A ed Edinety una cantante famosa”. La cosa che ci accomuna tutti però è l’amore: tutti imparano ad amare e ad avvicinarsi al prossimo, a partire da ogni momento e in ogni luogo.
Nessuna vita manca di Bene e Bellezza, da portare dentro di sé e da poter condividere, e questo ci consola.
Diario della 4a settimana ad Alto Molocue
Ultima settimana nelle terre zambeziane. Ci attende finalmente il viaggio per Quelimane per ritrovarci con l’altro gruppo di ragazzi con cui siamo partiti, anche loro coinvolti in questa esperienza missionaria, ospitati nella comunità dove è presente Padre Alessandro Capoferri. Per noi è arrivato il momento di salutare Padre Carlitos Joaquim e, grati per l’accoglienza, per l’affetto e la disponibilità che ci ha donato durante la nostra permanenza, ci rattristiamo un po’.
Nelle quattro ore di strada siamo riusciti ad assaporare un panorama così diverso da quello a cui eravamo abituati e a cui ormai si era cristallizzata la nostra idea di “terra africana”. Al posto del tipico colore rosso della terra che ricopre le strade e le case di Alto Molocue, infatti, abbiamo trovato grandi campi verdi, distese di erba rigogliosa e piantagioni infinite di palme da cocco. Dopo esserci ricongiunti per il pranzo e aggiornati sui rispettivi aneddoti, siamo subito ripartiti per Zalala Beach. Si poteva sentire l’impazienza di passare qualche giorno in spiaggia, baciati dal sole, per ritrovare un po’ la tranquillità e riprendersi da stanchezze e malanni vari. Senza neanche pensarci due volte alcuni di noi si sono buttati a capofitto dentro le onde dell’oceano, altri invece ne hanno approfittato per conversare con alcuni pescatori locali. Nonostante la spiaggia apparisse deserta non ci è voluto molto per renderci conto che effettivamente non eravamo soli: la quantità infinita di granchi di tutte le forme e colori, alcune lumache e stelle marine ci ha sorpreso e divertito molto.
Oltre agli scherzi e alle ustioni importanti (soprattutto per la candida pelle germanica di Maarit), sono arrivati anche i momenti più impegnativi. Creando un unico gruppo, ci siamo confrontati sui vari aspetti dell’intera esperienza, condividendo le nostre impressioni, i nostri dubbi, i nostri pensieri e sentimenti, così da poter fare il punto della situazione entrando appieno dentro noi stessi: si possono vivere molte cose, ma più importante è saperle trattenere e illuminare. Considerando poi che “el Senhor està nu medio de nos” (cioé in mezzo a noi e non meglio di noi, come una traduzione intuitiva potrebbe suggerire), abbiamo affidato tutto ad una semplice messa… attorno ai tavolini a bordo piscina! La mattina seguente, rinati, alcuni di noi hanno improvvisato una partita di calcio con dei bambini incontrati in spiaggia, i quali avevano già precedentemente disegnato un campo sulla sabbia bagnata, usando dei pali di legno per le porte. In questi momenti ci rendiamo conto di quanto sia cosa buona e bella stare semplicemente insieme ad altri piuttosto che “fare cose”. Forse giocando con dei bambini non abbiamo cambiato la vita di nessuno, ma l’apertura del nostro cuore sì: così dilatato la vita a tutto un altro Senso.
Una parte di noi si è ritrovata sulla spiaggia anche la sera: nessuna luna all’orizzonte, solo la via lattea a farci da grande coperta con le sue stelle. Altro che cinema! Incantati da questa magia, immersi nel buio dall’altra parte del mondo, ci siamo sentiti liberi e senza barriere, tanto che abbiamo cominciato a danzare e a cantare a squarciagola. Probabilmente svegliata dal silenzio che avevamo interrotto, anche la luna ha deciso di apparire, nascendo dall’oceano in un colore rosso intenso, per poi crescere e cambiare sfumatura a poco a poco fino a rimanere bianca, alta e luminosa nel cielo. Accompagnati dalla sua luce abbiamo deciso di sfidare la marea che rendeva l’accesso all’acqua particolarmente lontano e cullati dalla musica delle onde siamo stati pervasi da un senso di pace… finalmente pronti per tornare a Quelimane.
Qui la domenica alcuni di noi hanno assistito alla celebrazione in una comunità che, a differenza di quelle visitate ad Alto Molocue, lontane dal centro abitato e disperse nella savana, era proprio all’interno del quartiere, come una tipica parrocchia delle nostre città. La comunità assisteva alla celebrazione anche fuori dall’edificio, portandosi le sedie da casa. Sopra l’altare dei singolari poster colorati con delle gigantografie di Gesù ci hanno accolto, ammonendo i presenti con la frase “Jesus never falls”. Durante la celebrazione, oltre ai caratteristici e gioiosi canti e balli (addirittura di compleanno), sono stati accolti dei nuovi membri nella comunità a cui è stato chiesto di rendere nota qualsiasi situazione problematica (di lavoro o di salute), così che la comunità si sarebbe potuta muovere per aiutarli. Ci ha colpito anche la raccolta delle offerte divisa per uomini, donne e bambini per la costruzione di un’altra cappella: era una sorta di gara per motivarsi nel donare. Chi di noi ha invece partecipato alla messa vicino casa è rimasto sorpreso all’offertorio poiché, oltre alla farina, uova e riso, è stato portato persino un bebè.
Dopo le celebrazioni ci siamo dedicati al frenetico shopping pre-partenza, camminando quindi per le vie della città. Siamo rimasti sorpresi e un po’ turbati dalla quantità di rifiuti presenti: ne hanno la stessa quantità di una società sviluppata, pur non essendo ancora pronti per smaltirli. Ci sarebbe da riflettere sul fatto che il nostro prodotto di esportazione é il “lixo” (rifiuti). Il pomeriggio abbiamo raggiunto invece l’”Aldeia da Paz”, l’orfanotrofio femminile dove ci siamo divertiti giocando, cantando e ballando insieme alle bambine e ragazze. Che atmosfera distesa e intima abbiamo potuto respirare!
Durante questi giorni abbiamo anche visitato le famiglie a cui il gruppo di Quelimane ha costruito le case formate da una struttura di pali di legno “cementificata” con piccole quantità di fango lanciate con la mano, come se fosse un gioco, e poi lasciate a seccare. Queste case sono assegnate in base ad una lista d’attesa, dove le persone chiedono di essere inserite, o in cui si viene inseriti grazie alla cura di qualcun altro. Vedere come queste persone fossero orgogliose di avere finalmente una casa, anche se praticamente vuota e con solo una finestra per scoraggiare ladri e insetti, ci ha fatto riflettere.
Proseguendo con le visite, una mattina ci siamo recati nel carcere femminile di Quelimane. Fatti entrare nel cortile dopo una semplice suonata di clacson e un cancello spinto a mano da qualche baldo giovine, siamo stati accolti dai canti coloriti di una trentina di donne in uniforme arancione. Dopo una presentazione iniziale, con una canzone di Teresa e parole di conforto da parte di Padre Sandro, non hanno esitato a coinvolgerci con allegria nelle loro danze. Danzavamo tutti, nessuno si è potuto tirare indietro: anche le guardie carcerarie si sono unite alla festa senza alcun problema. Hanno assistito a questo nostro incontro anche dei ragazzi sordomuti di un istituto all’interno della struttura. Al momento del saluto, a ciascuna è stato fatto un piccolo dono: vedere la gratitudine nei loro gesti, occhi e parole, soprattutto di alcune mamme che si crescono i figli piccoli dentro la struttura, o che devono rimanerci per 24 anni, è stato davvero molto toccante. La tentazione per noi però è quella di considerare inutile una semplice visita, ma la verità è che farsi vicini a qualcuno, ricordargli che anche lui è degno di attenzione, può scatenere i più grandi miracoli.
Poi ci siamo anche recati al centro nutrizionale “Nutrimundo”. Qui i bambini che arrivano vengono registrati in un pc, e gli viene offerto un pasto composto dalla tipica polenta locale, un pesce, una banana ed un bicchier d’acqua. Ci ha toccato molto vedere come mangiassero ordinati e in tranquillità, senza prendere mai nulla senza permesso e condividendo sempre il poco che avevano nel piatto.
Dopo esserci impantanati per strada con la macchina siamo passati un’ultima volta per l’orfanotrofio per i saluti finali, e qualcuno del gruppo non è riuscito a trattenere le lacrime.
La mattina siamo pronti a tornare ad Alto Molocue, lasciandoci alle spalle le giornate ricche e impegnative di Quelimane. Gli ultimi due giorni li abbiamo passati tra i preparativi per le valigie e i bambini del “Centro Juvenil” che ci attendevano con tanta gioia. Assieme alle chiacchiere e agli ultimi saluti, pianti, baci e forti abbracci, sono arrivati anche i pensieri nostalgici: è giunto il momento di tornare a casa, ma già si percepisce il famoso mal d’Africa. Pensare ai colori, ai luoghi e ai volti sorridenti e affettuosi che non siamo pronti a lasciare andare, riempie tutti di un po’ di malinconia. Le valigie che imbarcheremo ora sono molto leggere, ma non il nostro cuore… perché un pezzo di Mozambico lo porteremo sempre con noi!