L’uomo della tavola e della mensa
L’articolo è stato pubblicato sul n. 6/2024 della rivista Presbyteri,
numero dedicato a La identità e la missione del prete.
Il mio servizio attuale è di cappellano in un carcere. Mi piacerebbe definirmi un “prete di strada”, ma non posso forzare l’immagine fino a rientrare nel chiuso immobilismo di un luogo di reclusione. Sono un prete di strada, come gli altri, nel senso che ogni giorno raccolgo le mie ossa, segnate dal tempo e dall’artrosi, e ricomincio a camminare. È però per me passato il tempo di correre. Tutto intorno a me corre: il tempo, il mondo, la cultura, i mezzi, la Chiesa (forse un po’ meno). Tutto cambia: è sempre stato così, però forse oggi il cambiamento più “strutturale” è proprio la rapidità con la quale il cambiamento si produce. E io non mi sento né le forze né la voglia per rincorrerlo, il cambiamento. Tanto meno mi sento in diritto di indicare agli altri, che hanno forza e voglia, la strada da (per)correre o le mete da raggiungere.
Perciò non mi cimenterò – anzitutto per incapacità – nell’inseguimento delle novità strumentali, pur riconoscendo la necessità che qualcuno lo faccia, e in fretta, e bene. Più che sulle strade da percorrere o la segnaletica da installare, vorrei dedicare qualche pensiero alla macchina che le deve affrontare, qualunque esse siano e a qualunque velocità si debba procedere. Qualcuno obietterà a buon diritto che il discorso vale anzitutto per me: quella “macchina” sono io. Non sarà tuttavia un lavoro inutile provare a mettere a punto il veicolo prima di sapere dove andare.
Le due tavole: buona la prima
A catechismo ho assimilato l’immagine di Mosè dai corni luminosi e con due tavole di pietra in mano: quella di sinistra coi numeri romani da I a III e la seconda da IV a X. Nella tavola di sinistra i comandamenti riferiti al nostro rapporto con Dio, nella seconda tavola gli imperativi (quasi tutti al negativo) che regolano il rapporto con il mio prossimo.
Nel mio immaginario – credo condiviso da molti – un prete viene valutato prevalentemente sul mastrino della seconda tavola: quanto sia riuscito a realizzare in dare e avere a favore del prossimo, soprattutto i più poveri e i più maltrattati dalla vita. E ci sta: sono abbastanza fiducioso che al momento di tirare un rigo in fondo alle due colonne sarò trovato senz’altro mancante, e dunque bisognoso di un aggiustamento di bilancio da parte di Colui che mi ha affidato il suo capitale. Non mi domanderò tuttavia, lungo queste righe, cosa voglia dire oggi per un prete rispondere alle nuove domande sorgenti da nuove povertà materiali ed esistenziali. Non perché non sia importante, anzi fondamentale, ma per concentrarmi su ciò che, nel vortice dei cambiamenti, mi permette di non eluderli.
Penso al presbitero – e al ministro ordinato in genere – come a un “uomo di Dio” e “uomo della comunità”; equazione che vale da sinistra a destra come da destra a sinistra. Comunque, un uomo la cui vita è segnata dall’obbedienza: a Dio e al prossimo, alla comunità e alla realtà. Uno dei motivi per i quali mi sembra plausibile fare riferimento alle Tavole della Legge, per quanto si presentino come una delle icone più obsolete, impermeabili alla storia e forse incapaci di produrre significato per l’uomo di oggi.
Dio esiste, ma non sei tu
Es 20,2«Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile: 3Non avrai altri dèi di fronte a me. 4Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo, né di quanto è quaggiù sulla terra, né di quanto è nelle acque sotto la terra. 5Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, tuo Dio, sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, 6ma che dimostra la sua bontà fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti».
Al presbitero viene affidato il mandato profetico di testimoniare Dio, la sua presenza, la sua consistenza storica, la sua identità di liberatore. Così è stato nel passato, così è per l’oggi. La missione è custodire e affermare il trascendente come principio del respiro.
L’annuncio si apre come testimonianza di un Dio che è liberatore dalla condizione servile. Oggi, forse più che in passato, è dovuto che la missione abbia origine in un Dio liberatore, e dunque respinga per sua natura ogni progetto di sottomissione, di dominio, di autorità che non sia servizio alla causa di liberazione sempre aperta.
La cultura nella quale respiriamo, senza attendere che noi scendessimo dal Sinai, ci ha messi davanti a un’istanza irreversibile di libertà. Non sopporta alcuna forma di autoritarismo o presunta superiorità – istituzionale o morale – derivante dal ruolo o dalla consacrazione sacramentale. È il primo comandamento e la prima forma di attenzione alle chiamate dell’oggi.
La storia stessa ci sta ingiungendo l’obbedienza al primo comandamento: nessuno può arrogarsi autorità divine o appellarsi a un mandato divino (sacramentale) per esercitare una funzione che non sia quella di liberare. (Fanno ridere amaramente i “chierici” – a qualunque livello – che indossano il paramento al grido «Dio me lo ha dato, guai a chi me lo tocca»).
Qual è il Dio del quale ci consideriamo ministri? L’onnipotente autoritario impositore di leggi gravose che lui non porta nemmeno con un dito? Il giudice impietoso che dirige la partita della vita senza aver mai indossato le nostre scarpe? O il Dio liberatore da ogni forma di asservimento, perfino a sé stesso; il Padre che ci vuole figli e non servi, e in Gesù ci ha chiamati amici?
E proprio per obbedire al mandato del ministero, il prete risponde al primo comandamento al fianco di ogni azione volta a liberare il singolo e le comunità da qualunque forma di oppressione. Se quella giustificata (?) dalla religione risulta – finalmente – sdentata, ce ne sono molte – seducenti e ben mascherate – nel nostro contesto culturale che esalta l’individualismo e incoraggia il narcisismo.
Il ministro ordinato – non solo il prete, ovviamente – non è il tutore dell’autorità di Dio, ma è l’alleato della sua unicità, perché questa è liberante: Dio c’è, ma non sei tu. Né sono Dio gli idoli che a diverso titolo si presentano a chiedere obbedienza. E i più “eterni” sono quelli con i quali ha dovuto confrontarsi Gesù stesso: il potere, la ricchezza, il successo.
Siamo uomini di Dio liberatore quando ci sottraiamo alle logiche di competizione che innervano le molte gare aperte su diversi fronti, le discussioni mai terminate su “chi sia il più grande”; quando nelle comunità a noi affidate – ma anche al mondo – legittimiamo una sola gara: quella a stimarsi a vicenda.
Senza attendere la rivoluzione paolina, il primo comandamento, il primo imperativo nasce da un indicativo: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla condizione servile».
Sarebbe forse stato più semplice e breve dire semplicemente che il primo comandamento mette al bando ogni forma di clericalismo, ma si sembrava importante sottolineare che questa liberazione non è un ulteriore fardello moralistico, quanto il risveglio della dignità di ciascuno. Dignitas infinita non acquisita su un podio, ma donata prima e al di là di ogni merito.
Siamo ministri di un Dio geloso, non dei nostri amori, nei quali credo si rispecchi con certo orgoglio, ma della nostra libertà di fronte a chi si presenta come dio per sottometterci. Siamo ministri di un Dio che dà la vita, non che la prende, come fanno i dominatori di questo mondo.
Troppe parole per la Parola
Es 20,7Non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio, perché il Signore non lascia impunito chi pronuncia il suo nome invano.
In un mondo sovraccarico di informazioni, messaggi, parole e immagini, siamo testimoni dell’Altro anche attraverso la sobrietà nel parlare e perfino con la estraneità del silenzio.
Il secondo comandamento esclude che il nome di Dio chieda di risuonare in un tono più alto della voce; imporsi attraverso il ripetersi.
Trovo sia una presunzione infantile quanto diffusa quella secondo la quale più parliamo di Dio e più lo facciamo conoscere; più carichiamo la sua immagine di tinte forti e più la facciamo emergere nel panorama saturo al limite della iperventilazione. Non sarà photoshoppando l’immagine di Dio che la renderemo accettabile al nostro mondo avvezzo all’artificio. Rischiamo piuttosto di farne una caricatura irritante.
Papa Francesco ha invitato i preti a essere brevi nell’omelia e sobri in ogni parlare. Dovrebbe far parte dello stile del nostro “mestiere”. Certamente è tratto essenziale dello stile della missione. Gesù ha mandato i discepoli in missione esortandoli a evitare “salamelecchi” (salam aleikum, i saluti per strada) e a tenersi a un annuncio estremamente sobrio: “pace a voi” (come dire – oggi – “buongiorno”).
Non si tratta naturalmente soltanto di brevità, si tratta soprattutto di essenzialità. Il rischio è che le parole dette nelle nostre chiese risuonino come parole buone ma anch’esse consumate, senza legami con la realtà. «Sono stato lungo perché non ho avuto il tempo di essere breve». Prendiamoci cura delle nostre parole, diamoci il tempo di trovare parole diverse da quelle delle narrazioni correnti, che però non cadano nella banalizzazione di formule vuote che non riescono a raggiungere il cuore.
Obbedire da prete al comandamento di non nominare il nome di Dio invano mi lascia tuttavia nel mezzo di un conflitto irrisolto. Da una parte sono convinto che, in genere, noi preti paliamo poco di Dio. Nelle nostre omelie, nelle conferenze, nelle iniziative pastorali che organizziamo parliamo di questioni etiche e sociali; di povertà e giustizia, di famiglia ed educazione, di catechesi e di liturgia. Parliamo di quello che facciamo e riconosco che quasi sempre siamo animati da un genuino spirito di confronto e collaborazione, sinceramente preoccupati del servizio da rendere alla comunità e di rispondere alla missione dando il meglio. Una semplice perlustrazione degli “avvisi del parroco” o delle locandine affisse alle porte delle chiese o degli annunci sui bollettini parrocchiali lascia capire che nei nostri “incontri” Dio è il convitato di pietra. Che dire poi delle nostre omelie? Devo pensare alle mie, d’accordo, ma non trovate anche voi che ci sia molta morale – anche ben predicata – e poco parlare di Lui? Eppure ho notato che quando riesco a trovare in me stesso le parole o le immagini per parlare di Dio “sento” un atteggiamento caldo in chi mi ascolta, come se finalmente stessi parlando di qualcosa che interessa nel profondo.
Da una parte, dunque, mi sento invitato a parlare di più di Dio; dall’altra sono invitato dal comandamento – senza contraddizione con un briciolo di sapienza umana – a non pronunciare il suo nome invano, a non forzarlo dentro le nostre discussioni per le quali l’intelligenza che ci è stata data da lui stesso è sufficiente ai nostri progetti.
Troppe volte lo chiamiamo in causa a conferma di quelle che sono nostre opinioni, modeste ma dignitose anche senza avvalli teologici. Troppe volte accreditiamo i nostri progetti come suoi disegni (il fatidico “Dio lo vole” oggi forse meno spudoratamente declamato, ma non per questo meno richiamato). Troppe volte mettiamo il suo nome in calce ai nostri proclami e “parola di Dio” a conclusione dei nostri ragionamenti.
Anche l’oggi ci ripete la chiamata a dare a Dio quel che è di Dio e all’uomo quel che è dell’uomo. A noi preti si chiede di parlare di più di Dio, e nello stesso tempo di non parlarne invano (o, peggio, a sproposito).
Dobbiamo parlare di più di lui per svelarne il volto manifestato in Gesù, non per costruirgli attorno delle maschere (se sentissimo quanto male gli fanno le maschere sulla pelle del viso!). Dobbiamo parlarne di più perché lui sceglie il nascondimento e il silenzio. Sono contenuto della Rivelazione anche i 9/10 silenziosi della vita terrena di Gesù. Ma proprio perché non sottrae la sua faccia gli insulti e si lascia sfigurare il volto, le nostre parole su di lui siano prudenti e luminose. Quando sfiguriamo il suo volto siamo pronti a sfigurare anche il volto umano (se non l’abbiamo già fatto in quello stesso momento).
Quando parliamo di noi evitiamo di parlare invano di lui. Possiamo prudentemente sostenere lunghi e complessi discorsi sulle nostre esperienze umane che sappiano di Vangelo anche senza nominare una sola volta il nome di Dio. Quando parliamo di ciò che è profondamente umano lui ne viene inevitabilmente coinvolto, perché così ha voluto. L’umano è sufficiente a giustificare e argomentare l’umano. Non abbiamo bisogno di benedire con l’acquasanta quello che è già benedetto da prima che fosse creato.
Quanto, poi, a costellare la nostra vita dell’invocazione del suo nome, anche a nome di chi non lo fa, possiamo contare sulla certezza che egli è il primo a fare suo il comandamento e non lasciare che il suo nome sia invocato invano. Il tempo dedicato alla preghiera non è sprecato, non è invano. Nella nostra società secolare, e post-ogni cosa, all’uomo di Dio è affidato il compito umanissimo di essere uomo per gli altri davanti a Dio.
Ancora una volta, non ci poniamo davanti al Dio amante del silenzio moltiplicando parole (vane), ma stando davanti a lui nello stesso atteggiamento di Gesù: per intercedere in favore degli uomini e delle donne ai quali siamo stati mandati, perché è ben proprio per questo che siamo stati mandati.
Le parole hanno poi bisogno, per non essere vane, di tradursi in pratica, in pratiche. Se siamo stati mandati ad annunciare «pace», educhiamoci alla pace per poter educare alla pace, perché lo sguardo sul mondo non rincorra invano un’impossibile competenza sociologica o geopolitica, ma diventi empatia capace di passione, quella di Cristo: portare su di sé il peso del mondo portando il peso delle nostre parole.
Sua volontà è la nostra festa
Es 20,8Ricòrdati del giorno del sabato per santificarlo. 9Sei giorni lavorerai e farai ogni tuo lavoro; 10ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: non farai alcun lavoro, né tu né tuo figlio né tua figlia, né il tuo schiavo né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te. 11Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il settimo giorno. Perciò il Signore ha benedetto il giorno del sabato e lo ha consacrato.
È ricorrente nei nostri discorsi, nei nostri scritti, nei nostri incontri “pastorali”, il giudizio sconsolato su questa generazione incapace di festa, sui nostri giovani iperaccessoriati per divertirsi e tuttavia scontenti. Al di là della retorica e dei luoghi comuni (non necessariamente falsi), una delle chiamate più forti che ci raggiungono dall’oggi ci ricorda il sabato e ci chiede di educare alla festa, creare occasioni di festa, svelare la festa gratuita, sepolta dal troppo allenamento per un podio grazie al quale fare festa.
Tutto quello che ho detto fin qui e anche quello che sto per dire può essere usato contro di me. Ne sono consapevole e tuttavia sento doveroso dirlo lo stesso: noi preti abbiamo smarrito il sabato e il comando di santificare almeno un giorno su sette con la festa.
A discolpa mia e dei miei “colleghi” posso citare a buon titolo la disponibilità generosa a un servizio 24/7. Sia benedetta e voglia Dio perdonare la nostra abituale trasgressione del terzo comandamento. È la nostra natura umana che non perdona e trasforma il nostro iperattivismo in stanchezza, frustrazione, amarezza, pessimismo se non depressione. Non parlo degli altri, parlo di me, per dire del sospetto che nutro nei confronti del mio vedermi sempre impegnato, nel poter dire che «non ho tempo, ma te lo faccio lo stesso», nel sospirare in qualche «non ce la posso fare». C’è un che di compiaciuto in questa mia stanchezza.
Mi domando anche quanta di questa mia sovraoccupazione sia figlia di un più o meno conscio clericalismo e/o narcisismo, della mia incapacità di lasciar fare ad altri e addirittura a collaborare (magari in posizione subalterna), della convinzione che tutto dipenda da me e “chi fa da sé fa per tre” (chi fa da sé in realtà fatica per tre). Io non ho una parrocchia che mi impegni e comprendo bene lo straordinario lavoro a chi ne ha affidate addirittura cinque. Ma mi sfugge l’obbligatorietà che tutto passi dal parroco. Dimentichiamo che i cimiteri sono affollati di persone indispensabili? Certo stiamo dimenticando il sabato. Perfino certe sagre della parrocchia ci portano ad esaurimento, invece che alla festa.
Pazienza se a pagarne il conto fossimo solo noi. Perdendo noi il tempo e il gusto della festa diventiamo cattivi maestri, non credibili quando vogliamo invitare a osservare il terzo comandamento. Che invece è così attuale e necessario.
Incredibile è che il prete venga associato alla festa (a qualcuno scapperà da ridere, almeno questo).
Non che dobbiamo essere i pusher dei sacramenti; certamente non dobbiamo essere i guastafeste. Siamo annunciatori di un vangelo (che è una buona notizia), comunicato a noi perché la sua gioia sia in noi e la nostra gioia sia piena.
Sono feste le nostre eucaristie? Quanti funerali ci insegnano la volontà credente di imprimere un tratto gioioso anche al più triste degli eventi e quante celebrazioni ci lasciano il sapore amaro di un invito alla festa trasformato in funerale? Potranno essere festa le nostre eucaristie domenicali se non curiamo la festa del quotidiano? Quale materia potremo consacrare nelle mense sacramentali se non siamo capaci di accogliere, di invitare e lasciarci invitare alla convivialità umana?
Abbiamo bisogno di festa. Il nostro mondo ha bisogno di festa. Il creato intero ha bisogno del sabato.
Se noi preti non siamo associati alla festa e alla gratuità è indice puntato contro la nostra disobbedienza al terzo comandamento. L’oggi ci chiama a tornare a questa obbedienza: ne abbiamo bisogno noi, ne ha bisogno il nostro mondo e il nostro tempo.
Nel sabato non c’è più schiavo né forestiero. L’invito alla festa non fa distinzioni, mentre sono le nostre distinzioni a impedirci la festa (e armare le guerre). Non ditemi che il terzo è un comandamento di altri tempi. È drammaticamente di questo.
Festa chiama gratuità, tempo sprecato eppure ottimamente investito. Alla nostra missione non viene chiesto il raccolto, viene chiesta la generosità della semina. In un contesto di relazioni segnate crudelmente dall’opportunismo e dalla strumentalizzazione, l’uomo di Dio testimonia e traduce la radicale gratuità di Dio che ci ama perché siamo, prima ancora di quello che siamo, certo non per quel che facciamo.
Una delle “confidenze” raccolte nei colloqui in carcere che mi agghiaccia sempre è quando qualcuno – e non sono pochi – mi dice: «Non ho nessuno che mi venga a trovare. Nessuno che mi pensi. Nessuno a cui telefonare. Non c’è nessuno a cui interessi come sto e che, nemmeno per usanza o cortesia, mi domandi “come stai?”. Non ho nessuno cui poter dire che stanotte non ho dormito supponendo che gli interessi…». Le relazioni sono opportunistiche e si dà per scontato che lo siano. Sono interessante non perché sono io, ma per quello che posso “dare”, “rendere” senza “prendere”, in cose o in prestazioni. Molti, troppi di coloro che ora si trovano in carcere hanno conosciuto nel loro passato da liberi – stando ai loro racconti – relazioni strumentali: vali per quello che mi dai, non per quello che sei.
Ma non avete anche voi il sospetto che in realtà sia così dappertutto? che questo stile delle relazioni tenti di modellare anche quelle mutuate dal Vangelo? Mi porto dietro il ricordo – mi sembra lontano – di una predicazione che ci portava alla presenza di un Dio contabile esigente, tutto premi e castighi (soprattutto castighi). Perfino il comandamento della festa lo abbiamo trasformato in un precetto sub gravi.
Chi annuncerà il vangelo della grazia (gratuità), se non noi che ci sentiamo salvati per questa grazia e ne facciamo la ragione della festa e della vita?
Dio sa quanto (anche) il nostro mondo abbia bisogno di festa e di gratuità e forse per questo ne ha fatto un comandamento e ci chiama ad esserne i missionari.
Marcello Matté